"Il liuto è uno strumento musicale che si discosta generalmente dagli altri per la delicatezza del suo timbro. Ha cinque cori di corde, sempre doppi, e nove tasti sul manico creano le diverse note mediante l'applicazioni delle dita. Il suo corpo concavo fa le veci del petto umano; la rosetta della bocca; il manico è simile alla trachea, e le dita, correndo su esso, fanno la funzione dell'epiglottide; il pizzicare delle corde è simile alla compressione dei polmoni che fa uscire la voce, ma il budello delle corde è come la lingua mediante la quale si articolano i suoni. Il liutista è l'intelligenza che produce il canto."
(Paulus Paulirinus, Liber Viginti Artium, 1460 ca)

 

È incredibile cosa ci si sia inventato per paragonare lo strumento alla voce umana, una tendenza molto diffusa in antichità, perché la voce era considerata lo strumento perfetto.

Così, se per gli strumenti a fiato il problema è più semplice (pensiamo al cornetto rinascimentale, uno strumento che sa imitare perfettamente la voce umana), per i cordofoni il discorso si complica, e allora si usano le metafore più spinte.

Il liuto fu importato in Europa dalla cultura araba, nel Duecento: il suo nome arabo è al'ud, o oud, ma ancora nel Rinascimento l'origine dello strumento non era molto conosciuta, se Vincenzo Galilei scrisse sulla timologia (sic) del liuto che "dico essere stati altri di parere, ch'egli fosse detto lauto, cioè sontuoso, magnifico. nobile et splendido". Insomma il liuto era, ed è tuttora, un gran bello strumento.

 

I liuti del Kalòs sono due: uno è arabo (oud), l'altro è un liuto prerinascimentale costruito dal liutaio Fabio Galgani.

 

 

Ecco, fra l'altro, cosa è riportato sul sito della Società del Liuto:

 

"Come tutti sappiamo, il liuto è uno strumento di antichissima origine araba entrato a far parte della vita musicale europea durante il periodo medievale. La configurazione dei liuti arabi antichi era probabilmente non troppo dissimile da quella degli Ud che sono ancora in uso nella pratica musicale nord africana e medio orientale. Nel passaggio dalla cultura araba a quella europea, il liuto subì comunque delle modifiche (prima fra tutte la tastatura del manico, assente negli strumenti arabi) che permisero di eseguire sullo strumento il repertorio musicale occidentale. Intorno al secolo XIV troviamo il liuto europeo ormai svincolato dal modello arabo e stabilizzato nelle sue configurazioni tipiche a quattro e a cinque cori. Non non sono rimasti esemplari integri di liuti medievali ma ne possiamo vedere ancora belle raffigurazioni nei dipinti del tempo. Il liuto Trecentesco veniva suonato con il plettro e su di esso si eseguivano brani di tipo monodico o di semplice ambito polifonico con eventuale accompagnamento di corde vuote che fungevano da bordoni.

Non si hanno notizie certe su come venissero accordati i liuti di questo periodo: probabilmente, nemmeno esistevano regole precise e, forse, ogni liutista seguiva un criterio proprio."

 

 

 

 


L'acquisto di un nuovo strumento che andasse a nobilitare il nostro instrumentarium ci ha permesso di incontrare Fabio Galgani nella sua liuteria di Massa Marittima. Definire semplicemente liutaio Fabio Galgani sarebbe riduttivo. Grazie alla sua disponibilità, alla corrispondenza intrattenuta e con il suo permesso vorremmo citare qualche estratto dalle sue pubblicazioni e mettere in risalto alcune riflessioni, il suo profilo come studioso di musicologia e liuteria nonché costruttore del liuto in nostro possesso, che nello specifico trattasi di una ricostruzione di un liuto prerinascimentale a cinque cori secondo Arnault de Zwolle, corpo e manico in acero, tavola armonica in abete rosso, tastiera e finiture in pero.

Degli strumenti anteriori al sec. XVI, salvo alcune e poco significative eccezioni, non esistono esemplari superstiti, né le loro parti costitutive residue, per cui è necessario documentarsi dalle poche fonti storiche disponibili e soprattutto dall’iconografia.
Le fonti storiche medievali si dimostrano assai deludenti poiché si soffermano prevalentemente su problemi teorici e, quando affrontano tematiche organologiche, danno informazioni insufficienti, contraddittorie, raramente attendibili.
Solo l’iconografia dell’epoca ci fornisce informazioni preziose, tuttavia è necessario saper riconoscere raffigurazioni di fantasia, mitologiche, allegoriche, nonché le non rare deformazioni prospettiche.
Devono anche essere compresi i manierismi e le bizzarrie di pittori e scultori, così come i loro simbolismi teologici e filosofici. È comunque intuibile che l’iconografia non potrà mai fornirci informazioni sulle parti costruttive interne e neppure sugli spessori o sull’esatta convessità di tavole armoniche e fondi, elementi di primaria importanza per la resa acustica degli strumenti.
La materia è quasi inesauribile. Sempre nuove scoperte e conseguenti deduzioni mi hanno fatto più volte riconsiderare soluzioni tecnico-costruttive adottate in precedenza. Non è raro che alcune scelte mi sembrino poi viziate dalla mia incapacità di rendermi immune dagli attuali paradigmi, e dall’impossibilità di calarmi nella cultura dei musicisti e degli ascoltatori medievali, non dimenticando che gusti e ricettività si modificano continuamente, e uno strumento che all’epoca comunicava un certo stimolo emotivo, attraverso la musica e la sonorità, oggi non garantisce affatto un’identica percezione.
La forma e la funzione dello strumento, la loro interazione e continua evoluzione, nonché la loro integrazione con la voce umana e con gli altri strumenti, la prassi esecutiva del tempo, sono altri elementi da considerare.
Per gli esemplari più antichi capita anche che, steso il progetto con il massimo rigore, ci accorgiamo che lo strumento da ricostruire presenterebbe caratteristiche tali da essere ritenute ‘difetti’ dalla quasi totalità dei musicisti, quali ad esempio l’obbligo di postura inconsueta, la scarsa maneggevolezza della tastiera e dell’arco, o la sonorità troppo contenuta.
Si tratta in realtà dell’incapacità di adattamento dei musicisti e della loro istintiva difficoltà a svincolarsi dai modelli tecnici e percettivi attuali. Il liutaio non potendo ignorare questo problema, di norma apporta interventi correttivi al progetto originale, senza tuttavia introdurre elementi arbitrari o del tutto estranei al contesto storico di appartenenza, ma adottando quegli accorgimenti che garantiscono, in sintonia con le aspettative dei musicisti, un più facile approccio allo strumento e una resa acustica ottimale.1

 

La descrizione del liuto prerinascimentale è contemplata nel manoscritto in lingua latina n. 7295, conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi, scritto intorno al 1440 da Henricus Arnault, nato a Zwolle in Germania e chiamato Arnault de Zwolle. Nello stesso manoscritto Arnault prende in esame anche altri strumenti dell’epoca fra cui, molto importante, un clavicembalo. Il manoscritto, contrariamente alla maggioranza delle fonti coeve, è sufficientemente preciso e indica dettagliatamente tutti i passaggi progettuali e costruttivi, piuttosto lunghi e complicati, con qualche dettaglio, però, probabilmente poco attendibile e con disegni assai approssimativi. Ma la carenza più significativa è che de Zwolle non fornisce le misure ma solo le proporzioni. Le misure utilizzate da Galgani sono state dedotte da strumenti coevi e, soprattutto, calcolando che si tratta di un liuto tenore, ponendo il diapason a 50 cm (per rispettare il rapporto con il liuto basso). Altri studiosi sostengono che il diapason potrebbe essere anche di 53 o 54 cm.
Sul nostro liuto, pur mantenendo il diapason originale di 50 cm, è stato possibile montare un’accordatura taglia contralto sol re la re sol che più si addice alla diteggiatura da utilizzare sui nostri brani e per variare la timbrica tenorile dell’oud (liuto arabo), altro strumento utilizzato dal Kalòs Concentus. Altra particolarità dello strumento è l’utilizzo del plettro che consente delle brillanti linee melodiche arricchite all’occorrenza da semplici accordi d’accompagnamento. È basilare che il liuto in esame non doveva essere costruito con l’antica tecnica dello scavo – in uso sicuramente almeno fino alla prima metà del 1300 – ma per assemblaggio di un guscio fatto “a doghe” piatte. È una tecnologia nuova, diversa anche dai liuti arabi che sono costruiti con un guscio di notevole spessore, poi asportando gli spigoli, come tutt’oggi si fa per i mandolini e le mandole. Il liuto di de Zwolle rispetta una forma ad ovulo regolare generata da un solido di rotazione, forma che poi, nel Rinascimento, fu stravolta al fine di costruire strumenti meno profondi, di più facile imbracciatura.
La tecnica per l’assemblaggio di doghe piatte ha l’enorme vantaggio di poter usare spessori sottilissimi (nel liuto del Kalòs Concentus le doghe sono di soli 1,2 mm), contro la tecnica araba e dei mandolini, che non consentirà mai, pena rottura, neppure di avvicinarsi a tali spessori.
Ne consegue che le corde di un liuto arabo o dei mandolini possono essere tese con grande forza (6-7 kg a corda), mentre nei liuti europei si tenderanno entro i 2,5-3 kg a corda. La resa acustica è quindi assai diversa: più robusto, ma di minima durata il suono dei liuti arabi, meno intenso, ma più dolce e durevole il suono dei liuti europei.

 

Tutte le informazioni riguardanti il Liuto prerinascimentale secondo Arnoult de Zwolle ci sono state gentilmente fornite da Fabio Galgani.

 

Fabio Galgani, nato a Massa Marittima (GR) nel 1950, allievo di Raffaello Giotti, già allievo del grande Gaetano Sgarabotto (scuola Parmense), subito dopo gli studi di liuteria classica, si è specializzato in organologia, liuteria e musicologia medievale e rinascimentale. Per la sua ampia produzione rara e raffinata, che nel corso degli anni ha coperto quasi esaustivamente ogni tipologia di strumento antico, ha riscosso molteplici riconoscimenti e consensi a livello internazionale.
Opere di Galgani fanno parte della dotazione strumentaria di molte istituzioni pubbliche italiane ed estere, fra cui citiamo i conservatori di Colonia, Trossingen, Zurigo, Lione, e l’Università “La Sapienza" di Roma e il Museo di Liuteria di Atri.
Ampia produzione discografica è incisa con i suoi strumenti dai più noti professionisti di musica antica.
Sulla base delle sue ricerche storico-iconografiche, nei primi anni Ottanta ha per primo progettato e costruito, in epoca moderna, la “viella da gamba”, molto apprezzata dai grandi interpreti ed oggi regolarmente diffusa.
Stampa specializzata e locale, emittenti televisive si sono più volte interessati alla sua attività. La sua biografia è già pubblicata in diverse enciclopedie italiane ed estere. Ha tenuto inoltre molte conferenze, concerti e concerti-lezione su tematiche organologico-liutarie.
Anche valente concertista di flauto dolce, linguista per diletto (autore di un importante volume di onomastica), di vivissima curiosità intellettuale, con interessi che spaziano su discipline più diverse, ha affrontato la ricostruzione degli antichi strumenti con rigore filologico, tenendo conto della cultura e delle opere musicali dell’epoca, dell’evoluzione del gusto musicale, dell’acustica ambientale, senza tuttavia trascurare, quando motivate, le richieste dei musicisti di oggi.
Fabio Galgani è anche autore di molti saggi, ha collaborato con ricercatori universitari per l’interpretazione organologica di antiche opere pittoriche.
A tal proposito vorrei citare Gli strumenti musicali nella Maestà di Ambrogio Lorenzetti a Massa Marittima. Analisi storica e ricostruzione (v. nota 1) dove vengono individuati e descritti, con estrema precisione anche per il loro inquadramento storico, due vielle, un salterio ed una citola. Sono strumenti coevi ad Ambrogio Lorenzetti e dalla precisione dei dettagli con i quali li ha ritratti, come anche dalla impostazione appropriata assunta dagli angeli per suonarli, si può fondatamente presumere, come Galgani ipotizza, che l’autore fosse un cultore di musica o egli stesso suonatore di quegli strumenti.
I quattro strumenti in esame sono stati ricostruiti da Fabio Galgani con l’intento di fornire una documentazione storica, nel massimo rispetto della fonte iconografica, lasciando alla sua interpretazione solo le parti costitutive interne e quanto non visibile nel dipinto.

(Stefano da Sesto)

 

1. Fabio Galgani - Gli strumenti musicali nella Maestà di Ambrogio Lorenzetti a Massa Marittima. Analisi storica e ricostruzione, da “I Quaderni del Centro Studi”, Centro Studi Storici Agapito Gabrielli, Massa Marittima, 2000.