L’AGNELLO CHE È STATO IMMOLATO
4 maggio 2025, III DOMENICA DI PASQUA C
(At 5,27b-32.40b-41; SI 30/29; Ap 5,11-14; Gv 21,1-19)
È il Signore (Gv 21,7)
L’Agnello che è stato immolato è degno di ricevere potenze e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione si manifestò un’ultima volta ai discepoli, sul mare di Tiberiade.
A sette discepoli, per la precisione.
Non a dodici e neppure a undici, come dopo il tradimento di Giuda, ma a sette.
Il numero, che indica pienezza e compimento, segna anche una diminuzione rispetto al dodici.
Sette discepoli sono ciò che rimane, un piccolo resto al quale il Signore apparve e al quale riaffidò la missione di diventare pescatori di uomini (Lc 5,10).
Quel giorno Gesù si rivolse al Primo di questo piccolo resto, a Pietro, chiamandolo con il suo vecchio nome, Simone, figlio di Giovanni (Gv 1,42), nome che porta in sé la radice del verbo ascoltare.
Come a dire che non saranno la volontà, l’intelligenza o il carisma personale che farà di lui un buon pastore. Prima di diventare Roccia, Pietro è chiamato ad ascoltare la voce del Signore, a obbedire (ob-audire) alla sua Parola.
E l’ascolto, come l’obbedienza, prima di essere un atto di volontà è un atto d’amore.
In Simone, figlio di Giovanni, la chiesa è salvata non per la solidità della pietra che avrebbe dovuto essere, ma per l’amore, anche se non ha avuto la forza di conservarsi fedele (Sergio Quinzio).
Nell’epilogo del Quarto Evangelo troviamo rimandi a ciò che raccontato in tutte le sue pagine.
Nella presunzione di Simon Pietro che decide di andare a pescare, sentiamo l’eco della voce del vecchio Nicodemo che andò da Gesù di notte (Gv 3,1-21).
Noi sappiamo! Così aveva iniziato il dialogo notturno con Gesù.
Quella notte, con molta pazienza, il Signore lo portò dalla sicurezza al dubbio e dal dubbio alla totale confusione.
Il buon vecchio maestro tornò a casa con più domande che risposte.
La risposta alle sue molte domande venne tre anni dopo sul Golgota, quando strinse tra le braccia il corpo senza vita di Gesù, il corpo pieno di vita di Gesù.
In quel luogo di morte, il vecchio Nicodemo rinacque dall’alto, generato dall’acqua e dallo Spirito, pronto per fare il suo ingresso nel regno di Dio (Gv 3,5; 19,39).
Quella notte anche Simon Pietro era partito per una battuta di pesca con la stessa presunzione di Nicodemo, con l’arroganza dell’uomo che crede di sapere quello che fa.
Io vado a pescare – disse – e trascinò con sé sei discepoli in un’acqua oscura dove faticarono molto senza raccogliere nulla.
Sul far del mattino Gesù li raggiunse, ma gli occhi dei discepoli, come quelli di Maria di Magdala (Gv 20,14) e dei due di Emmaus, erano impediti a riconoscerlo (Lc 24,16).
Gesù chiese loro qualcosa da mangiare.
In quello stesso luogo, o poco lontano da lì, due anni prima Gesù aveva chiesto a Filippo se avesse qualcosa per dare da mangiare alla folla che li aveva seguiti.
Gli presentarono un ragazzo che aveva con sé cinque pani d’orzo e due pesci.
Ma che cos’è questo per tanta gente? – aveva detto Andrea, fratello di Simon Pietro.
Come allora, anche all’alba di quel mattino Gesù sapeva quello che stava per compiere (Gv 6,5-9). I sette discepoli, anche se quella notte avevano faticato invano e non avevano preso nulla, sulla parola di Gesù (che ancora non avevano riconosciuto) gettarono le reti dalla parte destra della barca e presero una quantità enorme di pesci.
Tre anni prima, in quelle stesse acque, dopo una pesca miracolosa, Simone aveva riconosciuto subito il Signore, gli si era gettato ai piedi e l’aveva supplicato di allontanarsi perché – disse – sono un peccatore (Lc 5,4-9).
Quel giorno, fu la voce del Discepolo Amato, quello che vede e crede (Gv 20,8), che gli aprì gli occhi: È il Signore!
Allora Simon Pietro si gettò in acqua, con l’entusiamo di un ragazzino, per andare incontro a Gesù che, nel frattempo, aveva acceso un fuoco di brace con del pesce sopra.
Forse quel piccolo fuoco sulla spiaggia del lago di Tiberiade ricordò a Simon Pietro un altro fuoco presso il quale aveva cercato inutilmente di scaldarsi la sera dell’arresto di Gesù (Gv 18,18).
Quello che è certo è che Gesù gli offrì la possibilità di rimettere insieme i pezzi della sua vita, compresi i fallimenti e le promesse non mantenute, i tradimenti e la presunzione.
Quel mattino, come il vecchio Nicodemo, Simon Pietro imparò che solo l’obbedienza alla parola di Gesù l’avrebbe salvato.
Più tardi, dopo che ebbero mangiato, Gesù gli chiese di essere come lui, pastore e agnello. Simon Pietro non fece promesse, ma consegnò la sua vita a Colui che scruta la mente e saggia i cuori (Ger 17,10).
Non più il Noi sappiamo di Nicodemo, né il suo: Io vado a pescare!
Ma: Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene.
Trent’anni dopo, anno più anno meno, Simon Pietro fu arrestato a Roma.
Come Gesù gli aveva predetto, fu costretto a stendere le mani e un altro lo vestì e lo portò dove non avrebbe voluto.
Secondo la tradizione fu crocefisso a testa in giù.
Da quella prospettiva rovesciata vide ciò che sarebbe stato rivelato a Giovanni nell’isola di Patmos trent’anni dopo.
Mentre il suo cuore cessava di battere vide una porta che si apriva nel cielo.
L’attraversò e si prostrò con la faccia a terra davanti a Colui che siede sul trono e all’Agnello.
L’Agnello che per la sua obbedienza e con il suo sacrificio ha spezzato i sette sigilli e ha aperto il libro scritto sul lato interno e su quello esterno (Ap 5,5.9).
E nel libro è raccontata la Sua storia e la nostra storia.
Una storia di misericordia e di salvezza.
Farsi discepoli di Gesù non significa solamente farsi scolari, vale a dire mettersi alla sua scuola per apprendere e memorizzare un insegnamento; significa piuttosto legarsi con tutto il proprio essere alla persona del maestro, prenderlo come guida, donargli il proprio spirito e il proprio cuore, vedere (Gv 9,37) e vivere in virtù di lui (Gv 6,57), nutrirsi di lui, lasciarsi affascinare dalla verità che è in lui e lasciarsi investire dal suo amore, e in questo abitare (Gv 1,38-39).
(Donatien Mollat)