IL LIBRO DELL’APOCALISSE
27 aprile 2025, II di PASQUA C
(At 5,12-16; SI 118/117; Ap 1,9-11a.12-13.17-19; Gv 20,19-31)

 

Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette chiese (Ap 1,11)

 

Il libro dell’Apocalisse che ci accompagnerà nel tempo pasquale non è un libro che rivela il futuro, ma una profezia del presente, per il presente.
Un libro che invita alla fede e riaccende la speranza, perché ogni tempo – quello delle chiese del primo secolo come quello delle chiese del XXI – è tempo di grazia e di lotta in un mondo che sembra sempre in balìa del principe di questo mondo.
Ma la vittoria del grande drago rosso è solo apparente perché Cristo con la sua sconfitta ha vinto il mondo (Gv 16,33).
L’Apocalisse è un libro che percuote e consola, che rimprovera e sostiene, distrugge e crea. Un libro che, come ogni parola di Dio, ha il potere di aprire porte che sembrano chiuse per sempre…

 

…Chiuse come le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei la sera del primo giorno della settimana.
In quella stanza chiusa Gesù entrò senza bussare e la prima parola che rivolse agli amici che l’avevano abbandonato nel momento della prova non fu un rimprovero ma una parola di pace.
E con la pace, quella che il mondo non può dare (Gv 14,27), Gesù donò ai discepoli la gioia che il mondo non conosce.
In quel luogo chiuso come un sepolcro, Gesù riportò in vita i discepoli.
Dopo essere risorto, li fece risorgere.
Le sue ferite sulle mani e sul fianco dicevano che la morte non è l’ultima parola.

 

Gesù rimase con loro il tempo necessario per donare il suo Spirito e renderli esseri viventi, come nel giorno della creazione (Gen 2,7).
E, come Dio aveva assegnato all’uomo il compito di custodire e coltivare il creato (Gen 2,15), così Gesù affidò ai discepoli la sua opera, chiedendo che la custodissero con la grazia del perdono.
Nessuno meglio di loro che l’avevano tradito, rinnegato e abbandonato poteva farlo.
Erano testimoni credibili perché erano dei guaritori feriti (H. Nouwen).

 

Nemmeno le sette chiese alle quali Giovanni inviò le sue lettere erano comunità perfette.

 

La chiesa di Efeso è perseverante e ha sopportato molto nel nome di Gesù, ma sembra aver dimenticato il suo primo amore (Ap 2,3-4).
La chiesa di Smirne non deve temere la prova che l’attende e proseguire il suo cammino confidando in Dio (Ap 2,10).
Le chiese di Pergamo e Tiatira che si lasciano sedurre facilmente da pseudo e pseudo profetesse sono invitate a non rinnegare la Parola di Gesù (Ap 2,14-16.20-21).
Alla chiesa di Sardi è chiesta la vigilanza per non essere trovata impreparata alla venuta del Signore (Ap 3,2-3).
La chiesa di Filadelfia ha custodito la parola di Gesù e non ha rinnegato il suo nome, nonostante la sua fragilità (Ap 3,8).
Il Signore bussa anche alle porte della chiesa di Laodicea, una comunità orgogliosa, presuntuosa, e tiepida affinché ascolti la sua voce e gli apra la porta (Ap 3,14-20).

 

Otto giorni dopo essere risorto dai morti, Gesù ritornò in quella stanza con le porte chiuse senza bisogno di bussare e senza che nessuno gli aprisse.
Rinnovò il dono della pace e parlò a Tommaso che voleva vedere e toccare i segni della morte nel corpo di Gesù per credere nella sua risurrezione.

 

Come il Discepolo Amato aveva creduto dopo aver visto i teli afflosciati nel sepolcro (Gv 20,8), così anche Tommaso quando vide le ferite sulle mani e sul fianco di Gesù credette.
E come Maria di Magdala aveva riconosciuto il suo Maestro dopo essere stata chiamata per nome (Gv 20,16), così anche Tommaso riconobbe in Gesù il suo Signore e il suo Dio.

 

Tommaso, il discepolo senza timore (Gv 11,16), imparò che non è il coraggio che scaccia la paura, ma la fede e l’amore (1Gv 4,17).
Da quella stanza non uscirono uomini perfetti e militanti, decisi ad affrontare il mondo ma credenti fragili e fiduciosi.
Dio ha messo il tesoro dell’evangelo del regno che si è fatto vicino (Mc 1,15), in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi (2Cor 4,7).

 

E’ per la nostra imperfezione che possiamo annunciare l’Evangelo, la buona notizia che il Signore è risorto, perché – come dice Paolo – Ci basta la sua grazia (2Cor 12,9).

 

Soltanto una fede ferita in cui sono evidenti i segni dei chiodi è affidabile; essa soltanto può curare. Temo che una fede che non abbia passato la notte della croce e non sia stata colpita al cuore non abbia questo potere.
Una fede che non sia mai stata cieca, che non ha mai provato l’oscurità, difficilmente può aiutare quelli che non hanno visto e non vedono. La religione dei ‘vedenti’, una religione farisaica, peccaminosamente sicura di sé, incolume, offre pietre al posto del pane, ideologia al posto della fede, teoria al posto di testimonianza, istruzioni al posto di aiuto, ordini e divieti al posto della misericordia dell’amore
(Tomàš Halìk, Tocca le ferite).

 

Dopo essere apparso a Maria di Magdala e agli Undici, Gesù, in presenza dei suoi discepoli fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro.

 

In ogni caso tutto ciò che è necessario sapere per credere che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiamo la vita nel suo nome è in due versetti del Quarto Evangelo.
Uno all’inizio e uno alla fine.

 

Il primo versetto è la parola che la madre di Gesù dice ai servi alle nozze di Cana: Qualsiasi cosa vi dica, fatela! (Gv 2,5).

 

L’ultimo versetto è messo in bocca al più dubitante e ostinato degli apostoli, a Tommaso detto Didimo, il Gemello, il nostro fratello gemello, il discepolo che, solo dopo aver visto e (forse) toccato le ferite, ha saputo fare a Gesù la sua professione di fede, la sua dichiarazione d’amore: Mio Signore e mio Dio!

 


Tra gli stessi profeti, unti dallo Spirito santo, si sono trovate delle cose riprovevoli.
(Detti apocrifi)